In riconoscimento del suo straordinario contributo agli studi sulla filosofia medievale e sulla tradizione tomista in particolare. La cerimonia ufficiale si svolgerà domani, 7 marzo 2024, presso l’Aula Magna della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum), a Roma. Nel pomeriggio, il Prof. Porro terrà – insieme al Prof. Serge-Thomas Bonino, Presidente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino – un intervento alla Camera dei Deputati (Biblioteca di via del Seminario) su invito del Presidente della Camera, Lorenzo Fontana. All’incontro prenderà parte anche il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.
Prof. Porro, anzi caro Pasquale, visto che vuoi ti si dia del tu, oggi, dopo il conferimento del Dottorato honoris causa all’Angelicum, terrai alla Camera una relazione dal titolo: “Che cosa significa essere tomisti? L’eredità di Tommaso d’Aquino nella storia del pensiero”: vuoi rispondere alla tua stessa domanda a beneficio dei lettori di Odysseo?
Come tutti gli -ismi e tutte le etichette, anche ‘tomismo’ è un termine mutevole, storicamente determinato, che cambia di significato a seconda delle epoche e delle intenzioni di chi lo adopera. Subito dopo la morte di Tommaso d’Aquino (7 marzo 1274), essere ‘tomisti’ significava principalmente aderire alla tesi dell’unicità della forma sostanziale nell’uomo, ovvero all’idea che l’anima razionale sia l’unica forma del composto umano – detto in termini meno tecnici: che l’anima non sia qualcosa che si aggiunga estrinsecamente al corpo, ma costituisca ogni essere umano insieme al corpo. È una tesi fortemente antidualista: l’uomo non è la sua anima, ma sempre l’unione di anima e corpo (tesi che inizialmente fu addirittura condannata, insieme ad alcuni dei primi seguaci di Tommaso). Un secolo dopo essere tomisti voleva dire sostenere il primato – almeno relativo – dell’intelletto sulla volontà: il nostro agire dipende essenzialmente da quel che deliberiamo razionalmente di fare. Agli inizi dell’età moderna, essere tomisti voleva dire soprattutto rivendicare l’esistenza indubitabile di una legge naturale a cui ogni diritto positivo avrebbe dovuto ispirarsi (un tema particolarmente delicato dopo che gli Europei erano venuti a contatto con le popolazioni del Nuovo Mondo: non a caso, i domenicani difesero strenuamente i diritti dei nativi americani proprio sulla base dei principî del diritto naturale). Più tardi ancora, il tomismo espresse – in opposizione soprattutto ai gesuiti – una certa idea della grazia fondata sul movimento che Dio stesso imprime originariamente alla volontà umana (anche in questo caso, il bersaglio era costituito soprattutto da ogni forma di rivendicazione – propria prima dei francescani, poi di alcuni gesuiti – della radicale autonomia della volontà umana). Alla fine dell’Ottocento e per buona parte del Novecento, il tomismo divenne la roccaforte del pensiero cattolico contro i pericoli del ‘modernismo’ e delle correnti antireligiose o almeno antitradizionaliste del pensiero contemporaneo. Ecco, quello che mi interessa è proprio sottrarre Tommaso d’Aquino a ogni schema rigido, a ogni tentativo di fissarne o cristallizzarne il pensiero in maniera atemporale o astorica. L’eredità di Tommaso d’Aquino non sta in qualche sua dottrina determinata, considerata astrattamente come una risposta valida per i problemi di ogni tempo; sta piuttosto – a mio modo di vedere – in un modello di esercizio della razionalità, ovvero del nostro essere animali razionali. Un buon esempio è offerto dalla scelta, da parte di Tommaso, di voler leggere e capire Aristotele, i neoplatonici, i filosofi arabi fino alla fase finale della sua vita, per confrontarsi con la scienza del suo tempo. Tomista è per me chi non si sottrae al confronto con ciò che la scienza e l’incontro con culture diverse suggeriscono, ma colui che cerca un terreno di dialogo e possibilmente persuasione sul terreno comune dell’esercizio della razionalità e della ragionevolezza.
Il Prof. Serge-Thomas Bonino, Presidente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, parlerà invece della “dignità della vita politica secondo san Tommaso”: vengono in mente diversi insegnamenti del Magistero. Ne scelgo due. Da una parte Giovanni Paolo II che, nella Christifideles Laici, esortava: «Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio» (CL 3) ; dall’altra, le mai obsolete parole della Gaudium et Spes: «Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo» (GS 43). Quanto credi sia ancora lontana l’aurora?
Non sono in verità in grado di rispondere, sia perché non so esattamente di cosa parlerà il Presidente Bonino (anche se posso immaginarlo: è un uomo di una cultura e insieme di un’ironia veramente straordinarie), sia perché è un tema su cui altri – a partire proprio da te che gestisci questa stessa bella esperienza di Odysseo e mi fai questa domanda – potrebbero dire cose molto più sensate delle mie. Se comunque devo esprimere un’opinione puramente personale, direi che anche l’impegno in politica deve rispondere, per Tommaso, al criterio della razionalità, messa al servizio del bene comune (per questo Tommaso stesso non preferisce in astratto e in assoluto una forma di regime politico ad un’altra). Certo, Tommaso è un teologo (e filosofo) cristiano, ma non difende per esempio alcuna forma di teocrazia. Nel linguaggio politico dei nostri giorni, si potrebbe dire che Tommaso concepisce l’impegno dei cristiani in politica nei termini di una fede ‘adulta’, basata sull’assunto aristotelico per cui l’uomo è naturalmente un animale ‘politico’, che vuole e deve vivere in comunità. Questa naturalità della dimensione politica non ostacola, ma anzi permette la realizzazione e la felicità di ogni individuo.
Ho dovuto insistere per strapparti questa luminosa intervista, ennesima testimonianza della tua umiltà che, per Simone Weil, è sinonimo di intelligenza. Vengono in mente le parole dello stesso San Tommaso che lasciò incompleta la Summa Theologiae perché raggiunto dall’intima convinzione che quanto avesse fin lì scritto e insegnato fosse «paglia rispetto alle cose che vidi e mi sono state rivelate». Che rapporto c’è tra verità e visione e quanto spazio rimane, nella società dei social media, per la ruminatio?
Per quel che mi riguarda, sono solo stato fortunato, nella mia vita come nella mia carriera, e sono per questo davvero grato a tutti coloro – dalla famiglia alle figure dei maestri che ho incontrato, fino a tutti i miei affetti attuali – che mi hanno permesso di coltivare i miei studi e le mie passioni. Quanto a Tommaso, è vero che rallentò il ritmo impressionante di lavoro che aveva tenuto fino a quel momento dopo un’esperienza occorsagli durante la festa di San Nicola del 1273, pochi mesi prima della sua morte; è allora che, secondo quanto riferisce il suo amico Reginaldo da Piperno (Priverno), avrebbe pronunciato la famosa frase «Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia (Omnia quae scripsi videntur michi palee)». Ma sappiamo per certo che questo non si tradusse né in rassegnazione né in disimpegno: la morte lo colse mentre si era messo in viaggio per partecipare, come autorità dottrinale, al Concilio di Lione, e durante il viaggio, pochi giorni prima della morte, scrisse un breve opuscolo indirizzato a Bernardo, abate di Montecassino, a proposito del problema – tutt’altro che semplice o facile – della compatibilità tra la prescienza divina e la libertà umana. Dunque, almeno qualcosa è stato scritto da Tommaso dopo la famosa decisione – così tanto enfatizzata nelle agiografie – di non scrivere più: la “paglia” ha conservato tutto il suo valore fino alla fine, si potrebbe dire (ed è per di più probabile che Tommaso abbia continuato a scrivere ancora sul letto di morte). Tommaso è stato un uomo dalla straordinaria curiosità intellettuale e non mai smesso di studiare, e di far appello alle risorse della ragione. Quello a cui si allude nella parte finale della domanda è un tema straordinariamente importante, è forse anche il tema filosoficamente più urgente oggi: la diffusione dei social media fa sì da una parte che tutti si sentano legittimati a intervenire su tutto, anche quando non ne hanno la competenza, e dall’altra che si diffondano la sfiducia verso il sapere l’accettazione acritica delle tesi più inverosimili (le fake news). C’è una crisi generalizzata sia dell’ideale dell’autorità epistemica (bisognerebbe prestare credito solo a chi ha un sapere comprovato in un determinato ambito) sia dell’etica della credenza: nessuno può essere moralmente giustificato a credere in ciò che non è stato adeguatamente ponderato, sulla base dell’evidenza e soprattutto del sapere disponibile. Lo stesso Tommaso d’Aquino, commentando il III libro della Metafisica di Aristotele, ammoniva che «nessuno può ricercare direttamente la verità, senza prima considerare il dubbio» e che chi non si pone preliminarmente dei dubbi razionali – cioè chi non soppesa con cura gli argomenti pro o contro una determinata conclusione – non potrà mai sapere quando avrà trovato la verità. È proprio la pazienza che richiede questa valutazione razionale che sembra essere ormai scomparsa, negli scambi sui social come nei talk show televisivi. Ma, in quanto uomini, non si può derogare mai, non si può mai venir meno – finché si è in vita – alla propria natura di essere razionali: è questa la lezione di fondo che forse dovremmo imparare da Tommaso.