Studiava e contemplava
Omelia nel VII centenario della canonizzazione di san Tommaso d’Aquino
- Il 18 luglio di settecento anni or sono, ad Avignone, con la bolla Redemptionem misit il papa Giovanni XXII proclamò la canonizzazione di fr. Tommaso d’Aquino. È l’evento che noi oggi stiamo ricordando e celebrando. Egli era morto qui a Fossanova, in questa antica abbazia, all’alba del 7 marzo 1274, ossia appena cinquant’anni prima; la fama della sua santità, però, si era già diffusa e questo, si direbbe, più ancora della fama della sua sapienza. Ed ecco che il Papa, più che diffondersi sull’opera intellettuale, nel documento si dilungò sulla memoria dei miracoli compiuti dal nuovo santo. Non mancò, tuttavia, di richiamare la sua dedizione allo studio e anche la cura con cui, mediante la preghiera, egli si preparava all’insegnamento. È questo l’elemento su cui vorrò soffermarmi anch’io oggi, con voi, cercando di scrutare il senso profondo di questa singolare composizione di mente e di cuore.
Indagare la dottrina e contemplare la sapienza è, infatti, l’ideale che tutta la tradizione cristiana, a cominciare da sant’Agostino, assegna al maestro (cf. Contra Faustum, XXII, 57: PL 20, 436). Aelredo di Rievaulx, monaco di un secolo anteriore a Tommaso, diceva che la scienza e la carità sono le due ali con le quali si ascende al monte della contemplazione (cf. Serm. de oneribus, XXIX: PL 195,48). Così è, anche per san Tommaso, l’itinerarium in Deum, il cammino per l’incontro con Dio. Su questo non c’è dubbio alcuno. «Nel nostro pellegrinaggio terreno – egli scriveva – tanto più avanziamo quanto più ci accostiamo a Dio, al quale ci si avvicina non con i passi del corpo, ma con gli affetti dell’anima. Ed è la carità a compiere questo avvicinamento, perché è con la carità che l’anima si unisce a Dio» (STh II-II. q. 24, a. 5 c). Al medesimo traguardo giungeva il percorso tracciato da san Bonaventura, che di Tommaso fu collega e amico. Insegnava: «Se, poi, ti domandi come ciò avvenga, interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelligenza; il gemito della preghiera, non lo studio e la lettura; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la tenebra, non la luminosità; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e che trasporta in Dio con lo slancio della compunzione e l’affetto più ardente» (Itinerarium, VII, 6).
Guardando ad entrambi, Benedetto XVI dirà: «La categoria più alta per san Tommaso è il vero, mentre per san Bonaventura è il bene. Sarebbe sbagliato vedere in queste due risposte una contraddizione. Per ambedue il vero è anche il bene, ed il bene è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere. Si tratta quindi di accenti diversi di una visione fondamentalmente comune. Ambedue gli accenti hanno formato tradizioni diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato la fecondità della fede, una nella diversità delle sue espressioni» (Udienza generale del 7 marzo 2010).
- La circostanza odierna è solenne e per essa il Santo Padre ha inviato ai vescovi Mariano Crociata, Gerardo Antonazzo e Ambrogio Spreafico una Lettera con la quale raccomanda alle Chiese di cui sono pastori e da egli stesso denominate Chiese «aquinati» di custodire la memoria viva del Doctor communis il quale, peraltro, è «un bene prezioso per la Chiesa di oggi e del domani» e questo sui tre fronti: della dimensione comunitaria della Chiesa, dell’apertura alla verità e dell’attenzione alle sfide della Storia. Li saluto di tutto cuore e con fraternità sincera, mentre, riconoscente al Papa per avermi designato quale suo Inviato Speciale per questa celebrazione, adempio volentieri all’incarico di portare a loro e a voi tutti il suo saluto, la sua benevolenza e la sua benedizione apostolica.
Dei tre punti appena richiamati, mi soffermerò sul primo e questo perché esso mi permette di fare un accenno alla pagina del Santo Vangelo che è stata proclamata. Il Papa, infatti, richiamava che noi siamo chiamati a «crescere insieme come membra vive e attive del Corpo ecclesiale, strettamente unite e collegate le une alle altre»; la parola di Gesù, per altro verso, ci ricorda: «Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8). L’affermazione ci sorprende alquanto, perché secondo la nostra logica Gesù avrebbe dovuto dire: voi siete tutti discepoli. Invece no! Gesù dice: voi siete tutti fratelli.
Questo c’induce a domandarci: «la parola “Maestro”, usata da Gesù a cosa – meglio: a chi deve farci pensare?». La risposta ci aiuta a darla appunto san Tommaso, il quale ci avverte che per capire non dobbiamo pensare a un bravo professore, o a uno studioso preparato e intelligente, bensì al Maestro interiore, ossia allo Spirito Santo (cf. Super Io., cap. 13, l. 3). Egli, infatti, diversamente dal maestro umano, che opera dall’esterno, è Maestro che «illumina interiormente […] preparando i cuori a ricevere la dottrina della verità» (STh III, q. 69, a. 5 ad 2). È questa la ragione per la quale l’ascolto dell’unico Maestro ci rende fratelli tra di noi.
San Tommaso ne diede una spiegazione esemplare quando, probabilmente nella Quaresima del 1273, predicò a Napoli la preghiera del Pater. Qui egli spiegò subito che il divino Maestro non insegnò a dire soltanto: Padre, bensì Padre nostro, precisando che questa preghiera il cristiano la recita non a nome proprio, ma in persona Ecclesiae, a nome della Chiesa. Chi rende possibile tutto questo è lo Spirito del Risorto. È lo Spirito la fonte che fa rifluire nel corpo la grazia di Cristo Capo ed è sempre lo Spirito il principio di connessione di tutte le membra tra loro. In questo Tommaso è senz’altro erede di sant’Agostino; egli, però, esplicita quella dottrina ricordando che lo Spirito opera solo a condizione che noi gli corrispondiamo mediante una fede operosa, ossia la carità fraterna. Per agire, Dio s’attende sempre una libera risposta da noi! È quello che il Papa sottolinea quando nella sua Lettera scrive che la dimensione comunitaria della Chiesa «si nutre e si manifesta nella vita sacramentale e nella liturgia, nella spiritualità, nella diakonia culturale e intellettuale, nella testimonianza credibile, nella carità e nell’attenzione ai più poveri e vulnerabili».
- Tommaso d’Aquino non è solo un santo: la Chiesa lo onora pure quale dottore; questo, però, non esclude, anzi implica che egli si è sempre fatto alunno del Maestro interiore. Nella Lettera con la quale per questa occasione mi ha ufficialmente nominato suo Inviato speciale, il Papa scrive subito che Tommaso, da Dio ripieno dello Spirito d’intelligenza, mentre con la ragione indagava umilmente i divini misteri, li contemplava con una fede ardente. Studio e contemplazione, dunque: non due operazioni distaccate, ma un solo atto dove convergono intelligenza e amore. È l’Itinerarium in Deum di cui dicevo all’inizio e per il quale san Tommaso è un caso emblematico.
Anche su questo i testimoni al processo napoletano, che si svolse dal 21 luglio al 18 settembre 1319, furono unanimi: fr. Tommaso fu un uomo di grande contemplazione e orazione, dissero. Veramente, non c’è santo di cui questo non sia stato detto; per Tommaso, però, dobbiamo riferirlo direttamente al suo lavoro intellettuale. Guglielmo di Tocco, che oggi potrebbe essere chiamato il «postulatore» della sua causa di canonizzazione, testimoniò: «Tutte le volte che voleva studiare, iniziare una disputa, insegnare, scrivere o dettare, si ritirava innanzitutto nel segreto dell’orazione e pregava piangendo per ottenere la comprensione dei divini misteri» (Ystoria, 30, 300). Un episodio che descrive bene questa consuetudine è abbastanza noto ed è collocato a Napoli, all’epoca in cui Tommaso scriveva per la Summa di Teologia le questioni sulla passione e risurrezione del Signore. Come di solito, al mattino molto presto, egli sta pregando nella cappella di san Nicola. Non è solo. Ad osservarlo c’è Domenico di Caserta, il sacrestano che lo spia e lo vede in levitazione, mentre una voce che viene dal crocifisso dice: «Hai parlato bene di me, Tommaso, quale ricompensa vuoi?». «Voglio te solo, Signore», è la sua risposta. Sono le parole di un innamorato.
Nello stile di vita di san Tommaso abbiamo un segno concreto dell’unione stretta vigente in lui fra studio e contemplazione; meglio: studii contemplatione, come dirà Guglielmo di Tocco; letteralmente: la contemplazione dello studio! Questo segno è la sua rinomata e usuale abstractio mentis, il suo apparente essere distratto, silenzioso; quasi, diremo noi, con la «testa fra le nuvole», al punto da costringere i superiori a mettergli accanto uno che lo riportasse nella realtà. Tale fu Reginaldo di Piperno (oggi Priverno), che fu per Tommaso come una nutrice. All’inizio, per il suo essere taciturno i suoi compagni di studio lo chiamavano giocosamente: «il bue di Sicilia». Il suo silenzio era, invece, espressione del suo essere assorbito in Dio. In quel Dio che pian piano andava come prosciugando la sua mente e riempiendo il suo cuore. Da qui, nelle ultime settimane di vita, la sua confidenza a Reginaldo: «Tutto ciò che ho scritto ormai non mi sembra che paglia»! C’è chi parla di uno sfinimento fisico e anche psicologico. Io preferisco la risposta di Antonin-Dalmace Sertillanges, uno dei massimi tomisti moderni: quando si è facilmente compiuto il difficile, allora si guarda all’impossibile sicché, per noi uomini, il silenzio è la più alta condensazione della scienza! Qualcosa di simile accadde a Beethoven, il grande musicista, del quale si narra che dopo avere composto la sua Nona Sinfonia e la Missa in re maggiore esclamava desolato: «Non ho scritto che poche note»! «Tutto l’oro al confronto della Sapienza è come un po’ di sabbia», abbiamo ascoltato dalla prima Lettura (cf. Sap 7,9).
Carissimi, qui a Fossanova e in questo momento, che ci dispone alla liturgia eucaristica, la mia riflessione non può chiudersi senza un richiamo alle ultime parole di san Tommaso. Ricevendo l’Eucaristia ed essendo ormai in fin di vita, Tommaso dice: «Io ti ricevo prezzo della redenzione della mia anima; io ti ricevo viatico del mio pellegrinaggio, per l’amore del quale ho studiato, vegliato, sofferto; ho predicato te, ho insegnato te…». Possiamo capire, a questo punto, il senso più vero, più profondo; la perla nascosta nell’espressione: «Tutto mi sembra paglia». Consapevole di essere giunto alla meta del cammino terreno, Tommaso abbandona tutto.
Le parole, anche le più sagge e più belle, non sono la realtà; la designano soltanto e conducono ad essa. Da tutte le sue parole, giunto alla realtà, se ne distacca con libertà e volentieri, perché il suo cuore è già «oltre». Quand’era più giovane e nel pieno delle forze, cominciando a scrivere la Summa contra Gentiles, ispirandosi a Sant’Ilario aveva confidato: «Io penso che il compito principale della mia vita sia quello di esprimere Dio in ogni mia parola e ogni mio sentimento» (I, c. 2).
Ora, che è debole ed è giunto al termine della vita, Tommaso chiude il cerchio e guardando l’Ostia santa dice: «Solo per te ho vissuto». Vorrei che a tutti noi, me per primo, san Tommaso insegni almeno questo: come stare davanti all’Eucaristia. Fin da questa Messa. Amen.
Abbazia di Fossanova (LT), 18 luglio 2023
Marcello card. Semeraro